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martedì 17 luglio 2018

Suore di clausura Pescara

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Le donne che sentono nel proprio cuore di avere la vocazione alla vita matrimoniale, ma non riescono a trovare un fidanzato cristiano, possono leggere il seguente annuncio di un ragazzo che sta cercando una donna che sia fedele agli insegnamenti della Chiesa Cattolica. Cliccare qui per leggere l'annuncio.


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Alle ragazze dell'Abruzzo che cercano un buon monastero di clausura in provincia di Pescara, o in altre province italiane, nel quale fare un'esperienza vocazionale per riflettere sullo stato di vita da eleggere, consiglio di sceglierne uno nel quale il carisma dell'istituto religioso preferito viene vissuto con maggiore perfezione e carità. La vita religiosa è meravigliosa, poiché consente di vivere più uniti a Gesù buono e di seguire più facilmente la via della perfezione cristiana.

Bisogna darsi da fare per ubbidire alla divina vocazione. Voglio riportare un breve brano di una lettera che mi scrisse una mia amica attratta dalla vita monastica: "Il mio più grande desiderio è quello di consolare Gesù, curare le sue piaghe, adorarlo, asciugare le sue lacrime, passare la mia vita con Lui, dargli tutto, non tenere niente per me, e sacrificare tutto per amor suo, vivere di Lui, per Lui, in Lui; amarlo fino a fondermi completamente in Lui, contemplarlo, supplicarlo di salvare i peccatori, di accordare la sua misericordia, di dar loro la fede. Voglio consolare Gesù per tutti gli oltraggi fatti al suo Sacro Cuore e al Cuore Immacolato di sua Madre. Se potessi, mi piacerebbe fargli dimenticare tutte le sue sofferenze, asciugare le lacrime che ha versato per noi."


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Dagli scritti di Padre Alfonso Rodriguez, S. J. (1526-1616).

Donde derivano i giudizi contro l'obbedienza e con quali mezzi si possono vincere

   La radice da cui nasce il pullulare di giudizi e di ragionamenti contro le cose comandate dall'obbedienza non è altra che la nostra immortificazione. Qualcuno potrà osservare: È come se domandassimo qual è la radice della superbia e ci si rispondesse: la mancanza di umiltà. È evidente che se fossi mortificato nel mio giudizio, obbedirei semplicemente, senza critiche contro di essa. Ma io non dico ciò, bensì parlo della mortificazione delle nostre passioni e dei nostri appetiti; il cercare le comodità e la soddisfazione della nostra volontà, il non essere indifferenti e docili a qualsiasi comando: sono queste le cause per cui, quando ci si comanda qualcosa contro la nostra volontà e il nostro desiderio, ci si presentano molte ragioni contro quel comando. Se, quando ci si presentano giudizi e repliche contro l'obbedienza, rientriamo in noi stessi e riflettiamo, vediamo che ciò avviene quando ci si comanda qualcosa che ci ripugna, quando non ci si concede ciò che vogliamo, quando siamo mortificati e punti al vivo in un punto dolente: allora sì, che sorge un vespaio di motivi; ma quando ci si comanda qualcosa di nostro gusto, che soddisfa il nostro palato, allora le ragioni contrarie non ci vengono neppure per la mente, anzi ci pare che tutto calzi a pennello e che quello che ci viene comandato sia la cosa più ragionevole del mondo.
   S. Gerolamo sulle parole di Osea: «Efraim è come un'ingenua colomba, priva d'intelligenza» (Osee 7, 11), si chiede perché Efraim venga paragonato ad una colomba e non ad altri uccelli, e risponde: Gli altri uccelli cercano di difendere i loro nati, anche con sacrificio della vita; quando vedono il nibbio o lo sparviero, il corvo o il serpente giungere al loro nido, vanno roteando, difendendo quanto possono i loro piccoli; e, quando non possono, mostrano il loro dolore con gemiti pietosi. La colomba invece non si lamenta, né mostra alcun dolore, né poi va a ricercarli (Comm. in Osee, l. 2). Ecco perché Efraim è paragonata alla colomba. Per lo stesso motivo, Cristo nel Vangelo (Cfr. Mt 10, 16) ci dice di imitare la colomba, di non opporre resistenza quando ci viene tolto ciò che amiamo, di non lamentarci né mostrare alcun risentimento. Di modo che i nostri giudizi nascono dalla nostra immortificazione e dalla ripugnanza che sentiamo, quando ci viene comandato qualcosa che è contro la nostra volontà. Pertanto il mezzo principale che, da parte nostra, possiamo opporre a questa tentazione è il cercare di mortificarsi e di non avere volontà propria, di non desiderare gusto o comodità, ma di starsene indifferenti e docili a tutto quello che il superiore vorrà fare di noi, senza desiderare che ci si comandi questo piuttosto che quello.
   Per questa ragione, i santi Padri antichi, da bravi maestri di spirito, esercitavano i loro sudditi comandando loro cose che sembravano irragionevoli, onde provare la loro obbedienza e spezzare il loro giudizio e la loro volontà; cosi quello che sembrava comandato a sproposito era molto a proposito, perché molte volte giova più che tu ti mortifichi e siano spezzati la tua volontà e il tuo giudizio, lasciandoti girare e rigirare dall'obbedienza, anziché sia fatta in altro modo una cosa che potrebbe dare un certo utile. Molte volte il superiore preferisce che questo vada perduto, purché tu guadagni e progredisca nell'altro senso: ciò non è perdita, ma guadagno. I maestri di spirito fanno come quelli che domano i puledri ancora pieni di brio: certe volte li fanno correre, certe altre li fanno camminare piano, ora li fanno girare in tondo, ora li fanno tornare indietro a mezzo giro, altre volte ancora li fermano repentinamente nel bel mezzo di una corsa precipitosa, per abituarli al freno e a domare i loro impeti. Sappiamo che cosi faceva il grande Antonio col suo discepolo Paolo, gli faceva cucire la veste e poi gliela faceva scucire, tessere le ceste e poi disfare. Altri facevano prendere l'acqua dal pozzo e poi gettarla di nuovo nel pozzo e di S. Francesco leggiamo che per la strada comandava a fra Masseo di girare tante volte su se stesso fino a che, stordito, cadeva a terra; mentre ad altri che chiedevano di entrare nel suo Ordine fece piantare la lattuga o i cavoli con le radici all'insù, per provare la loro obbedienza e sradicare da loro ogni segno del loro giudizio e della loro volontà. Volesse Dio che anche al giorno d'oggi si usasse un simile esercizio! Se fossimo abituati a disfare quel che abbiamo fatto bene, non ci risentiremmo quando siamo rimproverati perché abbiamo fatto male.
   Ma, poiché tale forma di mortificazione e completa sottomissione richiede perfezione, finché non vi saremo giunti, possiamo avvalerci della nostra stessa immortificazione riconoscendola ed attribuendo tutto ad essa. In questo modo i ragionamenti speciosi che sorgono spontanei contro l'obbedienza non ci nuoceranno, perché sappiamo che derivano da colpa ed imperfezione. Un malato che sa di essere ammalato, sa bene che pur avendo sete non deve bere, che anche se la medicina è amara o la perdita duole, deve essere così, e non dà ascolto alle sue sensazioni, ma si fida del medico, seguendone il parere. La conoscenza del suo stato di malattia lo aiuta a non fidarsi di sé, ma a seguire il parere del medico. Anche noi siamo malati, pieni di amor proprio, in preda alle passioni disordinate, non sappiamo desiderare altro che quel che potrebbe nuocerci, mentre respingiamo annoiati quello che ci gioverebbe. Facciamo, dunque, come il malato che vuole guarire, non crediamo a noi stessi, ma al superiore che ci cura e ci dirige e stimiamo valido ciò che egli comanda, senza dare importanza ai giudizi che ci nascono spontanei, anzi considerandoli capricci da malati. In tal modo, non solamente essi non ci nuoceranno, ma potremo trarne frutto e ci faranno accettare meglio l'obbedienza, perché riflettendo potremo dire: Siccome sono ammalato, mi dà fastidio quello che farebbe al mio caso e mi gioverebbe; non ho bisogno di altro segno per comprendere che quello è il meglio, perché è proprio degli infermi avere il gusto depravato e trovare difficoltà a prendere le medicine che giovano.
   Questo è dunque un gran rimedio contro i giudizi che possono nascere non soltanto contro l'obbedienza, ma anche contro la carità fraterna: rivolgerli subito contro di sé: sono io cieco, mi sbaglio, mi sembra sbagliato ciò che è bene; è forse migliore il mio giudizio per pretendere che divenga regola per gli altri? E quando il modo di fare del vostro fratello vi desse fastidio, datene la colpa a voi: sono io ad avere un pessimo carattere per cui tutto mi dà fastidio; la colpa è in me e non nell'altro!
   Gran rimedio contro tutte le tentazioni è comprendere che si tratta di una tentazione; perciò il demonio, quando ci. tenta, si dà molto da fare perché la sua tentazione non ci sembri tale, per farci cadere più facilmente. Come il cacciatore quando stende il laccio si dà gran da fare perché sembri esca e non rete, cosi il demonio «si trasforma in angelo di luce» (II Cor 11, 14), perché crediamo che sia splendore quello che invece è tenebra. Dio vi liberi dalla tentazione di non credere che è tentazione, ma ragione! Quando i vostri giudizi prendono tanto il sopravvento da convincervi che non si tratta di passione o di tentazione, che non parlate perché siete ferito, ma perché la cosa è chiara e chiunque la vedrebbe, allora il pericolo è grande e difficile il rimedio. Le tentazioni che vengono con apparenze di bene, sono le più gravi e pericolose (Part. II, Tract. 4, c. 19). Quando la tentazione viene a volto scoperto, ci si può dar da fare per superarla; ma quando non la si riconosce, ma si crede di essere dalla parte della ragione, come annientarla? Quando non si riconosce il nemico, anzi lo si crede un amico, come difendersi da esso? Diceva un gran servo di Dio che egli non temeva i difetti che conosceva ed aborriva, ma quelli che non conosceva o scusava.
   Ma, tornando al nostro argomento, ripeto che sarà un buon rimedio, quando ci si presentano speciose ragioni contro l'obbedienza, rivoltarci contro noi stessi, sforzandoci di comprendere che si tratta di immortificazione e di colpa da parte nostra e che quindi non dobbiamo badarvi. Abbiamo sufficienti motivi per far ciò, perché la nostra sensibilità sa inventare motivi speciosi per avallare ciò che le piace e molti inconvenienti per respingere quello che la contraria. L'amor proprio e le nostre passioni ci accecano tanto che ci fanno facilmente credere e giudicare che le cose siano del tutto diverse da quello che sono. Come quando uno ha sete, trova che l'acqua sia la cosa migliore e più saporosa del mondo, perché giudica secondo la sua disposizione, così chi è in preda di una viva passione per l'affetto disordinato, si finge la cosa molto diversamente da quello che è e non giudica secondo verità. Pertanto l'uomo che riconosce di non essere libero dagli affetti terrestri e di avere ancora delle passioni molto vivaci, non deve facilmente fidarsi del suo giudizio, ma considerarlo alla stregua di un malato o di un nemico e guardarsene.
   Anzi, non dobbiamo contentarci di non lasciarci trasportare dai nostri giudizi, bensì dobbiamo cercare di trarre un vantaggio dalla tentazione, umiliandoci e dicendo: E come? San così superbo che mi passano per la mente tali giudizi contro il mio superiore? lo che san venuto qui per servire a tutti come uno strofinaccio, mi anteporrei ora al mio capo e superiore, non solo mio, ma di tutti? Non san venuto qui per governare o comandare, ma per obbedire ed essere comandato; non sono io che devo giudicare la mia guida, ma essa che deve giudicare me! Questo antidoto può servire in tutti i casi e ci fa trarre buoni frutti da tutte le tentazioni (Part. II; Tract. 4, c. 22). Dobbiamo prendere occasione per umiliarci dalla stessa superbia e vanagloria. Come il demonio cerca di trasformare in veleno la medicina, facendo sì che ci insuperbiamo della stessa virtù e dell'atto di umiltà, così noi dal veleno dobbiamo ricavare il medicamento, umiliandoci della superbia di cui siamo vittime. Insuperbirmi io, cattivo ed imperfetto come sono? Invanirmi del male che faccio e volerne essere stimato?! Si vedrà ben chi sono! È uno stupendo antidoto contro le astuzie del demonio il cercare di volgere a nostro vantaggio ciò che esso aveva tramato per la nostra rovina (Cfr. Luc 1, 71).
   Ci sono ancora molte altre cose di cui possiamo valerci per non dar credito alle nostre ragioni, ma ritenerle come sospette: prima: se i saggi ci avvertono comunemente che è vera prudenza non fidarsi della propria saggezza, quanto più ciò sarà vero nelle cose proprie nelle quali si è parte in causa? È un evidente principio della sana filosofia morale che nessuno è buon giudice di se stesso. Nelle loro cose, generalmente, gli uomini non sono buon giudice perché sono accecati dalla passione dell'amor proprio; pertanto non è secondo ragione fidarsi del proprio giudizio, ma è necessario seguire quello del superiore e quello ritenere saggio.
   Secondo: altro argomento valido è che il suddito vede gli aspetti particolari che sono alla sua portata, mentre il superiore vede altri aspetti che il suddito ignora. Se, considerando soltanto quegli aspetti particolari, forse il vostro giudizio è migliore, considerando tutti gli aspetti che il superiore può vedere, non è più così. E questo non solo nell'ambito della perfezione, ma per semplice prudenza umana: è gran superbia ed indiscrezione mettersi a giudicare o a sentenziare sugli ordini del superiore, per quell'uno o due aspetti che possiamo vedere noi, che il superiore ha già esaminati forse ed ha dovuto respingere per altri motivi più urgenti.
   S. Agostino trae un bel paragone dal capo, che è la parte eminente nell'uomo. L'anima, egli dice, vivifica tutto il nostro corpo, ma nel capo risplendono tutti e cinque i nostri sensi: la vista, l'udito, l'odorato, il gusto e il tatto. Nelle altre membra risiede soltanto il senso del tatto; per questa ragione tutte le membra sono soggette al capo ed esso risiede più in alto di tutte, per poterle dirigere e governare. Ora, nel superiore, come nel capo, risiedono i cinque sensi e in te, come membro, soltanto uno. Se tu esamini una sola ragione, il superiore le esamina tutte, ascolta e sa tutto quello che si riferisce a quel caso; è quindi secondo ragione che i membri si sottomettano al loro capo. C'è un proverbio che dice che vale più un matto in casa propria, che un savio in casa d'altri: quanto più varrà un savio in casa sua che un altro nella casa altrui? Dice il Savio: «Non giudicare contro il giudice, perché egli giudica secondo giustizia» (Eccli 8, 17). È un'indiscrezione voler giudicare quando non si sa il come e il perché, non si può saperlo e non è bene che lo si sappia.
   Terzo: Ci servirà molto a sottomettere il nostro giudizio a quello del superiore considerare che egli mira al bene di tutta la casa e di tutto l'Ordine religioso, mentre tu non guardi che nella direzione del tuo dito e tieni sotto il tuo sguardo solo i tuoi particolari interessi, e inoltre che il bene comune e generale deve essere preferito a quello particolare. Vediamo che anche in natura certe cose, per il bene comune ed universale, non seguono la loro inclinazione individuale come l'acqua che cessa di scorrere verso il basso nella borraccia e certe volte si dirige verso l'alto, «per la perfezione dell'universo», come dicono i filosofi. Pertanto, ognuno deve rinunziare alle proprie tendenze e comodità, perché si possa compiere il bene comune a cui mira il superiore.
   Quarto: a non dar credito ai nostri giudizi, ci servirà anche la nostra stessa esperienza. Quante volte abbiamo creduto ed affermato tante cose per certe! Eppure ci eravamo apertamente ingannati, abbiamo cambiato parere e ci siamo anche vergognati di averci creduto e di aver giudicato come avevamo giudicato. Se un uomo vi avesse ingannato due o tre volte, vi fidereste ancora di lui? E allora perché vi fidate del vostro giudizio che vi ha ingannato tante volte? Ora, questa esperienza che uno fa della sua ignoranza e dell'inganno in cui più volte è caduto fa si che, mentre i giovani si determinano facilmente, gli uomini maturi agiscano con prudenza dopo aver riflettuto.

  
[Brano tratto da "Esercizio di perfezione e di cristiane virtù" di Padre Alfonso Rodriguez].