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sabato 9 giugno 2018

Suore di clausura Milano

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Le donne che sentono nel proprio cuore di avere la vocazione alla vita matrimoniale, ma non riescono a trovare un fidanzato cristiano, possono leggere il seguente annuncio di un ragazzo che sta cercando una donna che sia fedele agli insegnamenti della Chiesa Cattolica. Cliccare qui per leggere l'annuncio.


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Alle ragazze che cercano un buon monastero di suore di clausura a Milano, nel quale fare un'esperienza vocazionale per riflettere sullo stato di vita da eleggere, consiglio di scegliere uno tra i migliori, cioè uno nel quale il carisma dell'Ordine religioso preferito viene vissuto con maggiore perfezione e carità. La vita religiosa è meravigliosa, poiché consente di vivere più uniti a Gesù buono e di seguire più facilmente la via della perfezione cristiana.


Bisogna darsi da fare per ubbidire alla divina vocazione. Ecco cosa diceva Sant'Alfonso Maria de Liguori: "Chi elegge lo stato a cui Iddio lo chiama, facilmente si salverà; e chi non ubbidisce alla divina vocazione, difficilmente, anzi sarà moralmente impossibile che si salvi. La massima parte di coloro che si son dannati, si son dannati per non aver corrisposto alle chiamate di Dio."

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Dagli scritti di Padre Alfonso Rodriguez, S. J. (1526-1616).

La penitenza e la mortificazione della carne sono rimedio adattissimo contro questa tentazione

   S. Gerolamo dice: Le ardenti saette del demonio devono essere estinte col rigore delle veglie e dei digiuni (Ep. 54 ad Fabiolam, n. 7). Ciò che egli faceva. Di S. Ilario lo stesso S. Gerolamo narra che quando era sbattuto dalle tentazioni della carne e dai cattivi pensieri, si adirava contro il suo corpo e gli diceva: Farò di te un asinello che non sa più dar calci, perché ti toglierò la biada e ti darò soltanto paglia; ti farò morire di fame e di sete, t'imporrò pesanti carichi, ti farò soffrire il gelo e gli ardori del sole e cosi non potrai più pensare al cibo e alle cose disoneste (Vita S. Hilar., n. 5). Questo modo di fare è molto raccomandato dai santi ed usato dai servi di Dio anche quando non c'è lotta aperta.
   Nelle Cronache dell'Ordine di S. Francesco si racconta che un tale domandò ad un sant'uomo perché S. Giovanni Battista, essendo stato santificato fin da quando era nel seno di sua madre, si ritirò nel deserto e fece tanta penitenza com'è narrato nel santo Vangelo. A cui il santo rispose con questa domanda:
   - Dimmi un po', perché la carne quando è buona e fresca la si sala?
   E l'altro:
   - Perché si conservi meglio e non si corrompa.
   - Ebbene, il glorioso Battista fece tanta penitenza perché la sua santità si conservasse senza la corruzione del peccato, come canta la Chiesa (Part. I, l. 7, c. 32).
   Ora, se prima della tentazione, in tempo di pace, giova usare quest'esercizio di penitenza e di mortificazione, quanto non sarà necessario usarlo in tempo di guerra? S. Tommaso dice, seguendo la dottrina di Aristotele, che la parola castità viene da castigo, perché il vizio contrario deve essere tenuto a freno dal castigo del corpo, e che i vizi disonesti somigliano ai ragazzi che necessitano della frusta, perché mancano di ragione (S. THOM. 2-2, q. 155, a. 1 e 3. - ARISTOT., 3 Ethic.).
   Che se da tale trattamento dovesse derivare un danno per la salute del corpo, già S. Gerolamo ha risposto dicendo: È meglio che ti dolga lo stomaco che l'anima (Epist. 108 ad Eustoch., n. 19); è meglio che i piedi tremino per la debolezza, anziché vacilli la castità, anche se la discrezione è sempre necessaria. Naturalmente la mortificazione va dosata secondo le forze, la tentazione e il pericolo di ciascuno, perché certe volte si tratta di tentazioni delle quali non si teme e quindi non è necessario molto sforzo per vincerle; e certe altre sono tentazioni forti nelle quali l'uomo corre rischio di perdere la sua castità; allora occorre mettere a qualsiasi repentaglio la vita del corpo, per salvare quella dell'anima. I medici dicono: A mali estremi, estremi rimedi; e non si peritano a ricorrere a medicine straordinarie, quando vedono che il malato sta per andarsene. Lo stesso bisogna fare per le malattie dell'anima quando sono veementi.
   I maestri di spirito avvertono che talvolta queste tentazioni nascono dalla carne e di lì traboccano nell'anima, specialmente nei giovani e in coloro che stanno in buona salute e accarezzano il loro corpo; allora giova molto il rimedio che abbiamo suggerito, perché è posto proprio alla radice della malattia.
   Altre volte le stesse tentazioni nascono da suggestioni diaboliche e dall'anima passano al corpo, ed il segno sta nel fatto che siamo combattuti più da sentimenti ed immagini che da moti naturali; e se questi ci sono, la tentazione non è cominciata da essi, ma, iniziatasi da sentimenti ed immagini, è passata nella carne, che certo è debolissima e come morta, mentre i cattivi pensieri sono vivissimi; come accadeva a S. Gerolamo, stando a quel ch'egli stesso racconta. Mentre il suo corpo era affranto, consunto e quasi morto per le penitenze che faceva, gli pareva di trovarsi tra i balli e i festini delle giovani romane (Epist. 125 ad Rust. n. 12). Ci sono anche altri segni: vengono importunamente, quando meno si vorrebbe, e senza che si dia ad esse occasione; non le impedisce il tempo dell'orazione, la celebrazione della Messa o il luogo sacro in cui un uomo, per quanto cattivo, cerca di raccogliersi e di astenersi dal pensare a tali cose. Alcune volte si tratta di pensieri mai uditi o di cose mai sapute né immaginate, per lo meno nella forma in cui si presentano, e nascono con tale forza e in tal maniera che si sente interiormente che non vengono dall'anima, ma da un altro che le suggerisce o le fa. Tutti questi sono segni manifesti che la tentazione non viene dalla carne, anche se essa ne soffre, e bisogna perciò ricorrere ad altri rimedi. Tutti dicono che è bene ricorrere allora a qualche occupazione che metta in condizione di essere fortemente impegnati onde dimenticare le brutte immagini. Con questo intento S. Gerolamo si mise a studiare l'ebraico, come racconta egli stesso, con molta fatica e con poco frutto.
   Lo stesso S. Gerolamo narra un episodio di cui fu testimone oculare in Egitto.
   «In un convento viveva un giovane greco. Per quanta astinenza facesse e a qualunque eccesso di fatica si sobbarcasse, non riusciva a spegnere il fuoco della carne. L'abate del monastero, vedendolo in tal pericolo, riuscì a salvarlo con questo espediente: ordinò a un tale, uomo di grande autorità, di perseguitare il giovane con invettive ed ingiurie; doveva insultarlo e poi presentarsi, lui per primo, a far le sue lamentele. Quando vengono chiamati i testimoni questi parlano in favore di colui che ha insultato. Dinanzi a quella calunnia l'altro scoppia a piangere: nessuno crede alla verità. Soltanto l'abate abilmente prende le sue difese, affinché il fratello non resti sopraffatto da eccessiva tristezza. In breve: così passò un anno, al termine del quale il giovane, interrogato, se fosse ancora molestato dai pensieri d'un tempo rispose: "Caspita! non mi si lascia neppure il diritto di vivere, e mi prenderò il gusto di fornicare?"» (Ibid., n. 13). Tale fu il metodo di quel padre spirituale: vincere con una maggiore tribolazione quella minore. E, un po' più giù, S. Gerolamo aggiunge in lode della vita religiosa: «Se costui fosse stato solo, chi l'avrebbe aiutato a vincere le sue tentazioni?». E nella regola dei monaci una delle ragioni addotta dal santo per mostrare quanto giovi vivere in comunità e sotto l'obbedienza è questa: In comunità non farai quel che ti garba, mangerai quello che ti è comandato, possederai quello che ti verrà dato, indosserai i vestiti che ricevi, adempirai la tua parte di lavoro, starai soggetto a chi non vorresti, giungerai stanco a letto, camminerai carico di sonnolenza, e sarai costretto ad alzarti senza aver acquietato il bisogno di dormire. Preso da tanti impegni non avrai tempo per altri pensieri, e mentre passi da un ufficio ad un altro - poiché a lavoro segue lavoro - la tua mente sarà occupata unicamente da quello che sei costretto a fare (Ibid. n. 15; Regul. Monach. c. 2).
    S. Francesco diceva di sapere per esperienza che i demoni si spaventano per l'asprezza e il rigore della penitenza e fuggono, e che invece si avvicinano e tentano fortemente quelli che fanno una vita comoda e delicata (Cronaca di S. Francesco, p. 1, l. 1, c. 21). E S. Atanasio riferisce l'insegnamento di S. Antonio Abate ai suoi discepoli: Credetemi, fratelli, il demonio teme molto le veglie dei buoni, le loro orazioni, i digiuni e la povertà volontaria (Vita S. Ant. c .17).
   S. Ambrogio commenta a questo proposito il versetto del Profeta: «S'io mi afflissi col digiuno, s'io trassi un sacco per mia veste» (Ps. 69, 11-12), Questa, egli dice, è una buona difesa e un'ottima armatura contro il nemico. Ci conforta la dottrina di Cristo, rivelataci quando cacciò lo spirito immondo, che i discepoli non avevano potuto cacciare: «Questa specie di demoni non si può cacciare, se non con la preghiera e col digiuno» (Matth 9, 29). Aggiunge alla preghiera la penitenza come mezzo più adatto per scacciare questo genere di demoni (Ep. 42, ad Papam Siricium, n. 11). Pertanto, quando ci sono tentazioni di questo genere, non dobbiamo accontentarci di pregare, né di fare atti contrari alla tentazione, ma dobbiamo anche esercitarci in opere di penitenza corporale e di mortificazione, sempre col consiglio del confessore o del superiore per essere sicuri di agire per il meglio.
   Un religioso che era così tentato domandò a frate Egidio quale rimedio avrebbe potuto usare. Il santo frate gli rispose:
  ?  Che faresti, fratello, al cane che ti venisse a mordere?
   E l'altro:
   ? Prenderei un bastone e lo picchierei fino a farlo fuggire da me.
   ? Ebbene, ? disse il santo ? fallo con la tua carne che vuole morder ti e la tentazione fuggirà da te (Cronache dei Fr. Minori, p. I, v. 2, 1. 7, c. 7). È così buono questo mezzo che, talvolta, anche una piccola tribolazione basta ad allontanare la tentazione; per esempio: stendere le braccia in forma di croce, mettersi in ginocchio, darsi dei pizzicotti o dei pugni, stare un minuto su di un sol piede o altre cose simili.
   Nella Vita dell'apostolo S. Andrea si legge che, mentre si trovava a Corinto, si recò da lui un vecchio, di nome Nicola, il quale gli disse che per ben settantaquattro anni aveva vissuto disonestamente, lasciando sciolta la briglia ai suoi appetiti disordinati e dandosi ad ogni genere di turpitudini e che, entrando in una casa una donna di essa con cui voleva peccare lo allontanò da sé con grande spavento e lo pregò di non toccarla, perché vedeva in lui qualcosa di meraviglioso e misterioso. Dopo aver detto ciò, Nicola pregò S. Andrea di indicargli un rimedio contro quel suo vizio inveterato. Il santo si mise in preghiera e digiuno cinque giorni, pregando il Signore di perdonare quel vecchio miserabile e di concedergli il dono della castità. Dopo i cinque giorni, mentre era ancora in preghiera, udì una voce del cielo che gli disse:
   - Ti concedo quanto mi hai chiesto per quel vecchio, ma desidero che, come tu hai digiunato per lui, casi anch'egli digiuni e si mortifichi, se vuole esser salvo.
   Il santo ordinò il digiuno a Nicola e chiese a tutti i cristiani di pregare per lui e di implorare misericordia dal Signore. La loro preghiera fu così completamente esaudita che Nicola tornò a casa sua, donò tutto quello che aveva ai poveri, macerò la sua carne con aspra penitenza e per lo spazio di sei mesi non mangiò che pane secco con poca acqua. Compiuta ormai la penitenza, passò da questa vita e Dio rivelò ad Andrea, che era assente nel momento del trapasso, che Nicola era salvo.
   Nel Prato Spirituale si racconta che un monaco andò a far visita ad un anziano e gli disse:
  ?  Che cosa posso fare? non sopporto più i pensieri che mi assalgono.
   Gli rispose il vecchio:
   ? Io non sono stato mai combattuto da simili pensieri.
   Il monaco se ne scandalizzò, e si recò da un altro anziano al quale disse:
   ? Il tale Padre mi ha detto che non è stato mai tentato, né lo è ora da simili tentazioni; io me ne sono scandalizzato, perché mi ha detto cosa che eccede la natura umana.
   E il Padre gli disse:
    ? Non senza ragione ti ha detto ciò; torna indietro e chiedigli perdono, e quell'uomo di Dio ti dirà per quale ragione ti ha detto così.
   Il monaco tornò dal primo Padre e gli disse:
   ? Ti prego, Padre, di perdonarmi, perché senza neppure salutarti l'altro giorno mi allontanai da te così sconvenientemente. Ma, te ne prego, dimmi come mai non sei combattuto.
   E il vecchio rispose:
   ? Perché da quando san monaco non mi sazio mai, né di pane, né d'acqua, né di sonno, e quest'astinenza mi ha liberato dalla lotta coi pensieri di cui tu mi hai parlato (Vitae Patrum, l. 5, libell. 5, n. 31).




[Brano tratto da "Esercizio di perfezione e di cristiane virtù" di Padre Alfonso Rodriguez].