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sabato 4 agosto 2018

Suore di clausura clarisse

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Le donne che sentono nel proprio cuore di avere la vocazione alla vita matrimoniale, ma non riescono a trovare un fidanzato cristiano, possono leggere il seguente annuncio di un ragazzo che sta cercando una donna che sia fedele agli insegnamenti della Chiesa Cattolica. Cliccare qui per leggere l'annuncio.


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Alle donne che desiderano trascorrere alcuni giorni in un monastero di clausura di Monache Clarisse per fare un'esperienza vocazionale, consiglio di scegliere quelli migliori, cioè quelli in cui il carisma del proprio istituto religioso viene vissuto con maggiore perfezione e carità.


Tra i numerosi monasteri delle seguaci di Santa Chiara, è importante scegliere uno dei migliori per fare esperienza vocazione. Più un monastero è fervoroso e meglio è.

Le Sorelle Povere di Santa Chiara, comunemente note come Suore Clarisse, costituiscono uno dei più diffusi ordini religiosi femminili di stretta clausura, dopo le Suore Carmelitane Scalze. Mentre le seguaci di Santa Chiara d'Assisi sono in tutto il mondo circa 7.500, le seguaci di Santa Teresa d'Avila sono circa 11.500, grazie anche all'apostolato che Santa Teresina di Lisieux continua a fare con la sua autobiografia intitolata “Storia di un'anima”.

La Regola delle Monache Clarisse è una delle più austere tra quelle approvate dalla Santa Sede, ma se viene vissuta in maniera radicale ricolma il cuore di francescana letizia, come confermato dalla vita di coloro che si sono santificate in questo ordine religioso.


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Dagli scritti di Padre Alfonso Rodriguez, S. J. (1526-1616).

I tre motivi dell'obbedienza indicati dall'apostolo S. Paolo

   «Obbedite a coloro che vi fan da capi e state loro sottomessi, perché essi vigilano sulle vostre anime e ne dovranno rendere conto. Possano essi far questo con gioia e non gemendo, perché ciò non vi sarebbe di alcun giovamento» (Hebr 13, 17). Tre ragioni ci dà l'apostolo S. Paolo esortandoci all'obbedienza ai superiori, e poiché sono ragioni dello Spirito Santo, espresse a mezzo suo, non possono non essere buone e proficue.
   La prima è: «Obbedite a coloro che vi fan da capi» e fate tutto ciò che vi comanderanno, sempre, s'intende, quando non ci sia peccato, come è stato già detto al capitolo sesto e su cui è fondato sempre tutto ciò che diremo. Poi: «State loro sottomessi perché essi vigilano sulle vostre anime e ne dovranno rendere conto». Una delle cose che più ci consola e conforta nella vita religiosa è questa, la certezza che obbedendo non sbaglieremo. Il superiore potrà sbagliare comandandoci questo o quello, ma tu sei certo di non sbagliare facendo quanto ti è comandato, perché a te Dio domanderà soltanto se hai fatto quel che ti è stato comandato e l'averlo fatto basterà a giustificarti dinanzi a lui. Non dovrai render conto se fu un bene o se si poteva fare una cosa migliore; perché ciò non dipendeva da te; di ciò dovrà render conto il tuo superiore. Pertanto S. Gerolamo esclama: O libertà e sicurezza dell'obbedienza nella quale è difficile peccare! In certo modo, egli afferma, l'obbedienza ci rende impeccabili (Regul. Monach., l. 6).
   Specialmente per noi che siamo occupati nel servizio del prossimo è di gran conforto sapere che facciamo in ciò la volontà di Dio. Se fossimo rimasti nel mondo, per quanto fossimo buoni, per quanto desiderio nutrissimo di piacere a Dio, saremmo sempre rimasti a bruciare tra due fuochi: piacerà a Dio che serva il mio prossimo o piuttosto che curi me solo? Qui, siamo liberi da ogni perplessità, perché lo scopo del nostro istituto è di servire il prossimo e a questo fine Dio ci ha chiamati nella Compagnia: siamo certi che in questo modo piacciamo alla sua divina maestà. Quell'altro non avrebbe avuto l'ardire nel mondo di ascoltare le confessioni e, se l'avesse avuto, avrebbe sempre dubitato di fare o no la volontà del Signore; ora confessa con tranquillità ed è sicuro di servire Dio. Non siete stati voi a farvi confessori, predicatori, superiori che vi hanno posto in essi adatti a tale ministero: i superiori che vi hanno posto in essi ne daranno conto a Dio: «essi vigilano sulle vostre anime e ne dovranno rendere conto».
   Concorda perfettamente in ciò S. Giovanni Climaco che, oltre agli altri epiteti che dà all'obbedienza, dice che è una scusa dinanzi a Dio (Scal. del Parad. n. 4). Se egli mi dovesse domandare: Perché hai fatto questo? Signore, perché mi è stato comandato; e con ciò sarei scusato dinanzi a lui. È una navigazione sicura, un viaggio compiuto dormendo. Come chi si trova in una nave, sta seduto o dorme, eppure avanza senza nessuna preoccupazione del viaggio, perché la responsabilità è del pilota, così il religioso che vive sotto l'obbedienza, dormendo, cioè senza fatica né preoccupazione di quel che deve fare, cammina verso il cielo e la perfezione; per lui vegliano i superiori che sono i piloti e i capitani della barca. Non è poco attraversare il golfo di questo mondo su braccia e spalle altrui! Tale è la grazia che Dio ha fatto al religioso che vive sotto l'obbedienza; il peso delle responsabilità è tutto sulle spalle del superiore, mentre egli se ne sta tranquillo e senza preoccupazioni per quel che è meglio.
   Questa è una delle considerazioni che spinge le persone virtuose ad entrare nella vita religiosa e a mettersi sotto l'obbedienza, liberandosi dalle infinite perplessità ed angosce di cui è pieno il mondo, per piacere a Dio col proprio servizio. Perché, pur essendo buone le cose in cui nel mondo possono occuparsi, non sanno se loro è dato occuparsene, perché fare il bene non è da tutti, specialmente quando eccede le nostre forze, come l'insegnamento o la responsabilità degli altri. Perciò dice un dottore che varrebbe meglio raccogliere pagliuzze per obbedienza anziché compiere opere grandi di propria volontà, perché in quello che si fa per obbedienza si è certi di fare la volontà del Signore, nel resto, no.
   Ma l'obbedienza ci rende certi non soltanto nel ministero e nelle occupazioni a servizio del prossimo, liberandoci da dubbi e perplessità, ma anche nelle cose specifiche del nostro progresso spirituale. Se mi trovassi nel mondo e volessi servire Dio, mi troverei in mille dubbi: mangio troppo o troppo poco? dormo molto o dovrei dormire di più? è poca o troppa la penitenza che faccio? prego abbastanza? Nella vita religiosa tutti questi dubbi sono risolti: mangio ciò che mi danno, dormo il tempo assegnato al riposo, faccio la penitenza che mi è stata determinata. Tutte queste cose san qui considerate e tassate dai superiori e san certo che seguendo i loro ordini faccio la volontà di Dio.
   E non soltanto nel campo spirituale, ma anche in quello materiale, questa vita è tranquilla e senza preoccupazioni. Come chi viaggia in una nave ben provveduta, il religioso non deve procurarsi neppure le cose necessarie. Il superiore non vigila soltanto sulle anime, ma anche sui corpi: non devi aver cura né di quello che devi mangiare, né di come devi vestirti, sei libero da tutto e puoi occuparti unicamente di amare e servire Dio. Quanto ciò sia da desiderarsi e stimarsi ce lo dice Cassiano, parlandoci dell'abate Giovanni, il quale, dopo essere stato trent'anni in un monastero, volle lasciarlo e preferì la vita solitaria per abbandonarsi meglio alla contemplazione; lo fece perché allora poteva farsi, e passò nella vita eremitica altri vent'anni, con tali grazie da parte di Dio e con così alta e continua contemplazione che si dimenticava persino del suo corpo, i suoi sensi erano come addormentati e a sera non si ricordava se aveva mangiato quel giorno o il giorno precedente. Nonostante il suo alto grado di contemplazione e la felice riuscita della sua vita eremitica, decise di lasciare la solitudine e di tornare alla vita comune, sotto l'obbedienza, e lo fece. E il motivo fu che, sebbene in monastero non ci sia possibilità di tanta contemplazione ed elevazione, pure a ciò supplisce quel riposo e santo oblio di cui gode il religioso, libero dalla sollecitudine dell'indomani (Coll. 19, c. 3ss). Ma molto più vale la sicurezza di piacere a Dio in ciò che fa e di non poter fare cosa più gradita alla sua divina maestà.
   A noi che viviamo nella vita religiosa sotto l'obbedienza Dio ha dato un altro Mosè che, come quello per i figli d'Israele, sale sul monte e ci manifesta la sua volontà. E come quelli, quando avevano dubbi o difficoltà, dicevano: «Andiamo a consultare il veggente!» (1 Sam 9, 9), così possiamo dire anche noi. Chiamavano veggente il profeta perché vedeva e comprendeva la volontà di Dio e la manifestava al popolo. Tale è la nostra ricchezza: in ogni dubbio o difficoltà possiamo dire: andiamo dal veggente, da colui che ci è stato dato da Dio come profeta, che egli ha posto in sua vece per manifestarci la sua volontà. Godremo così di quella beatitudine di cui parla il profeta Baruc, parlando a nome del popolo di Dio: «Noi siamo beati, o Israele, perché ci è stato rivelato ciò che piace al Signore!» (Bar 4, 4). Siam ben fortunati noi religiosi, perché sappiamo qual è la volontà del Signore, che cosa egli vuole da noi e con quali mezzi possiamo meglio piacere alla sua divina maestà.
   La seconda ragione dell'apostolo S. Paolo è: Obbedite ai vostri superiori «perché essi possano portare il loro peso con gioia e non gemendo». L'Apostolo ha compassione dei superiori, vedendo il peso che grava le loro spalle e perciò ci raccomanda di essere facili all'obbedienza per rendere più lieve il loro carico. Poiché è già tanto grave il peso che il superiore porta sulle sue spalle, dovendo rendere conto a Dio di ciò che fa lui e di ciò che fate voi, non vi aggiungete un sovrappiù con le vostre difficoltà ad obbedire e a lasciarvi governare. È una gran tribolazione per un superiore avere un suddito così immortificato da non poterne fare ciò che vorrebbe, da non potergli comandare ciò che gli sembra opportuno, ma da dover procedere con precauzione e timore, chiedendosi se prenderà bene il comando, se replicherà, se frapporrà delle difficoltà perché la cosa non gli piace, o anche da dover studiare il modo di dirlo perché lo prenda bene e provi piacere nell'obbedire. Comandare in simili circostanze dà la stessa pena che produce dover muovere un membro ammalato. Hai un braccio o un piede ammalato e ciò non ostante, devi gestire o camminare: che fatica! quanto dolore non costa! Quale ne è la causa? È ammalato e non lo si muove che con molta difficoltà. È tanto il dolore che senti per un piede ammalato che non ti azzardi ad andare da qui a là, anche per una cosa necessaria e, piuttosto che sopportare tanto dolore mandi alla malora l'affare. Parimenti è così grande il dolore di dover muovere un braccio ammalato, che preferisci non mangiare. Ciascuno di noi è membro della Religione che è un corpo mistico, come dice S. Paolo (Cfr. 1 Cor 12, 12) parlando della Chiesa. Ora, se sei un membro malato e immortificato sarai causa di tribolazione a tutto il corpo della Religione e al superiore quando deve farti agire e dare degli ordini. Prova tanto dolore il superiore, quando vede che il suddito fa le cose con difficoltà e malvolentieri che, pur essendoci necessità di fare quella cosa, pur dovendosi provvedere a quegli affari e a quei ministeri, molte volte non osa comandare, come se dovesse muovere un braccio o un piede ammalato.
   Questa riflessione è opportuna per coloro che pensano sia dolce e piacevole essere superiore. La Sacra Scrittura dice di Rebecca che aveva tanto desiderato di aver figli e li aveva chiesti a Dio; ma quando sentì i dolori del parto e conobbe che nel suo seno si urtavano i due bambini Esaù e Giacobbe, per uscire uno prima dell'altro, se ne pentì e disse: «Se doveva accadermi questo, che dovevo provare tanto dolore, qual bisogno v'era ch'io concepissi?» (Gen. 25, 22). Lo stesso accade ai superiori quando vedono che uno obbedisce malvolentieri, un altro replica, un altro si lamenta e un altro ancora mormora; allora il superiore geme sotto il peso della sua carica e dice: Oh, come sarebbe meglio che me ne stessi in un angolo e non dovessi far altro che obbedire! Questo significa aver figli? Questo significa essere superiore e avere dei sudditi? Se tanto vale, sarebbe meglio non averne.
   Solo chi lo ha esperimentato comprende quanto sia grande questo dolore. Si dice comunemente che per essere buon superiore e saper comandare, è necessario essere stato prima un buon suddito e sapere per esperienza cosa sia ubbidire, perché si possa dire di lui ciò che S. Paolo dice di Cristo: «Noi non abbiamo un pontefice che non sia in grado di aver compassione delle nostre infermità, ma al contrario, egli è stato messo alla prova in tutto come noi» (Hebr. 4, 15). Questo è vero senza dubbio; ma io dico un'altra cosa, per la quale credo che tutti mi daranno ragione: come per essere un buon superiore e conoscere l'arte del comando è di grande aiuto essere stato suddito, e sapere per esperienza cosa sia ubbidire, così per essere un buon suddito, veramente ubbidiente, è di molto aiuto aver avuto l'ufficio di superiore e aver comandato. Questi conoscerà per esperienza la difficoltà del comando, quando i sudditi non ubbidiscono, e non vorrà dare un tale dolore al suo superiore. Non è necessario a questo scopo aver avuto una gran carica, basta aver avuto autorità su qualche compagno. Quante volte avete taciuto un ordine per non aver osato e quante volte vi pesa di più dover comandare questa o quella cosa, che non farla da voi? Basta questo per comprendere quel che sente un superiore e la sua tribolazione quando il suddito mostra la sua difficoltà. Questi tali fanno sì che il superiore gema e si dibatta sotto il peso del suo ufficio, desiderando far tutto da sé piuttosto che comandare.
   Le pena maggiore per il superiore non è tanto il suo dolore, quanto il male del suddito; perché infine il superiore è padre e non può non soffrire per le infermità dei suoi figli. Ferisce profondamente l'animo del superiore l'imperfezione e la poca virtù del suddito, il vedere che invece di eseguire con prontezza gli uffici umili per i quali sente maggiore ripugnanza, replica e si scusa e presenta mille difficoltà. Dice molto bene Tommaso da Kempis che il religioso tiepido è sempre infermo e indisposto per quello che non vuole e non gli manca mai un pretesto per non fare quello che non gli piace. Non possiamo quello che non vogliamo, ma quello che vogliamo lo possiamo sempre, anche se è più faticoso. Lo afferma S. Giovanni Crisostomo: «È così grande la forza della nostra volontà, che ci fa potere tutto ciò che vogliamo, e non potere ciò che non vogliamo» (Serm. de Zaccheo, 3), Questo è il maggior dolore per un superiore, la cosa che maggiormente lo fa soffrire, l'infermità spirituale del suo suddito, la sua imperfezione e immortificazione.
   Pertanto ubbidite ai vostri superiori, siate loro sottomessi, non date loro tanto dolore, perché debbano gemere e dibattersi sotto il peso della loro carica. Questa può essere la terza ragione: «Notate che ciò non conviene neppure a voi», perché andrete anche voi struggendovi sotto il peso e vivrete .una vita penosa, come sanno coloro che vivono in tal modo. Sarete lasciati da parte come membri malati e permetteranno piuttosto che le cose non si facciano e ciò non è bene per voi; accondiscenderanno alla vostra imperfezione e vi lasceranno fare quel che volete e così farete la vostra volontà, non quella di Dio: ciò che dobbiamo temere grandemente, come abbiamo detto più su, al capitolo quarto. 


[Brano tratto da "Esercizio di perfezione e di cristiane virtù" di Padre Alfonso Rodriguez].