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martedì 4 luglio 2017

Suore di clausura a Roma

Le testimonianze di vocazioni religiose sono tutte belle perché sono tutte storie d'amore tra le anime e Dio. Ecco la testimonianza vocazionale di una monaca Clarissa del monastero  di "Via Vitellia" di Roma.


È curioso, ma più passa il tempo, più mi è difficile raccontare che cosa è capitato nella mia vita. Più semplice sarebbe poter dire, come Gesù ai primi discepoli: "Venite e vedrete" (cf. Gv 1,39); sono sicura che allora non sarebbero necessarie tante parole, basterebbe soltanto uno sguardo per capire che cosa si nasconde dietro il mistero che sto vivendo ormai da diversi anni nel  monastero di clausura.

Ci sono soltanto tre parole - visto che proprio ne devo usare qualcuna... - che vorrei emergessero come luci in questa testimonianza: la prima è semplicità, la seconda è gioia, la terza è coraggio. Tre parole che sono state, e sono tuttora, tanto importanti per me. 

C'è stato un periodo della mia vita in cui pensavo che semplicità fosse sinonimo di banalità (...e quanto continua ad essere difficile ancora oggi liberarsi da questa tentazione!). Avevo allora 15-16 anni, proprio quell'età in cui si sente la necessità, per affermare in qualche modo se stessi, di mettere in discussione tutto ciò che ci è stato trasmesso: e la fede, naturalmente, è stato uno dei primi valori ad essere presi di mira! Mi sembrava "banale" credere, volevo impostare la mia vita su qualcosa di più razionale, volevo essere io a decidere di me stessa...
Mi sono ritrovata a 25 anni con tanti doni tra le mani: la laurea, un lavoro che mi gratificava, degli amici, un ragazzo a cui volevo bene... e insieme l'incapacità più assoluta di godere di tutto questo!

Parlavo prima di gioia. Mi poteva sembrare "gioia", al momento, una serata con gli amici, un esame superato a pieni voti, una passeggiata nel silenzio delle nostre campagne: eppure tutto mi lasciava un senso di incompiuto. C'è una frase di Montale che ho letto anni più tardi, ma che descrive bene ciò che avvertivo in quel periodo: "Tutte le cose portano scritto 'Più in là'". Mi dicevo: "L'insoddisfazione fa parte del cammino di ogni uomo... la gioia è questione di pochi momenti in una vita di fatica...", ma erano frasi fatte che non mi convincevano del tutto, e non facevano che alimentare il vuoto che mi portavo dentro. 

Alla fine, vedendo che non ne venivo a capo da sola, il Signore mi ha dato una mano: attraverso alcune esperienze dolorose ha tolto il velo che io stessa avevo calato sulla realtà che stavo vivendo, e me ne ha mostrato il vero volto, un volto che portava i segni della precarietà, della finitezza, della caducità. Da questo punto in poi mi è difficile, lo ripeto, dire cosa è successo: so solo che ho cominciato a soffrire, di una sofferenza apparentemente senza causa - avevo tutto! -, ma proprio per questo ancora più difficile da accettare. Eppure sentivo che dentro quella sofferenza c'era nascosto qualcosa di vero, intuivo che dovevo avere il coraggio di non sfuggirla: capivo - non so come, è stata pura grazia! - che finalmente si stava compiendo qualcosa...


Da quei giorni ho tratto un insegnamento che non ho mai più dimenticato: non bisogna mai aver paura e indietreggiare di fronte ai momenti di vuoto e di buio: sono l'inizio di qualcosa di grande! La gioia di cui dicevo, quella gioia che pensavo irrealizzabile in questa vita, nasce come puro dono di Dio nella solitudine di questi momenti. 

E' stato proprio per disperazione - è una parola grossa, ma non sarei sincera se non la dicessi - che mi sono rivolta al Signore. Vicino alla mia città c'è un'antica e silenziosa abbazia: ci passavo davanti ogni giorno per andare al lavoro, finché una mattina mi sono trovata lì, in ginocchio, a pregare, e nel silenzio sentivo che qualcuno ascoltava e raccoglieva quello che io in modo confuso cercavo di esprimere. Ecco la semplicità: non facevo che ripetere le preghiere imparate da bambina al catechismo, perché non sapevo in che altro modo parlare al Signore.

Fin da quei primi momenti mi si è rivelata con chiarezza l'importanza della preghiera, e di una preghiera semplice, immediata. E' la preghiera che mi ha aperto la strada: da allora io non ho fatto altro che seguire indicazioni ben precise che il Signore mi dava di volta in volta, attraverso persone, situazioni, avvenimenti; ma mi rendo conto che riuscivo a leggere dentro ciò che mi capitava solo perché "buttavo via" tanto tempo nella preghiera.

Così è stato il giorno in cui mi sono ritrovata in visita ad un monastero di clausura con un amico - "Ma esistono ancora le suore di clausura?", avevo chiesto stupita quando ne avevo sentito parlare. E proprio lì ho visto quella semplicità e quella gioia di cui dicevo, che nascono dall'aver saputo ridurre la vita all'essenziale, all'"unica cosa necessaria". E anche se la mia prima reazione è stata come quella di tutti - perplessità, un misto di paura e di rabbia per aver visto negli occhi delle monache ciò che avevo sempre cercato con tanta sicurezza altrove - il ricordo di quei pochi minuti di colloquio continuava a tornare a galla, e mi dava gioia, e mi spingeva a cercare quella stessa semplicità.

E "cercavo" nella preghiera, trovando in essa motivi sempre nuovi per cercare ancora! Pregavo, e dalla preghiera mi arrivava la forza per prendere decisioni che solo poco tempo prima mi sarebbero sembrate improponibili: come quella di andare a Messa ogni mattina, prima del lavoro, e di recitare l'Ufficio divino e il Rosario rubando un po' di minuti qua e là nelle mie densissime giornate, in quegli spazi di tempo cosiddetti "liberi" che avevo sempre ritenuto intoccabili. E mi sembrava sempre troppo poco il tempo dedicato al Signore... finché non mi sono arresa all'evidenza dei fatti - i fatti della vita dello spirito sono estremamente concreti e convincenti: il Signore non voleva solo qualche minuto del mio tempo, neppure qualche ora o qualche giorno... voleva me!

Ricordo quando ho cominciato a parlare di clausura in casa e con gli amici: tra le varie obiezioni che mi venivano mosse, ve ne era una che ricorreva sempre: "Con tutto il bene che potresti fare nel mondo, vai a buttare via così la tua vita!". Cercavo di replicare qualcosa che spiegasse loro che in un monastero si può essere tanto utili, ma sapevo di non essere tanto convincente, perché in fondo io stessa davo ragione a loro: era vero, stavo "buttando via" la mia vita... ma era esattamente quello che volevo!

Oltre tutto in quel periodo mi ero ormai pienamente riconciliata con il mondo che avevo intorno, così da vedere chiaramente la bellezza e l'importanza di tutte le altre vocazioni, da riuscire a scorgere dappertutto la possibilità di fare del bene, di lavorare per il Signore... ma tutte le strade per me portavano ancora scritto "Più in là". Solo pensando alla clausura trovavo pace, e insieme quell'entusiasmo, quella gioia di essere che ti nascono dentro quando ti vedi davanti qualcosa che hai atteso da tanto.

Queste erano le mie uniche sicurezze. Quando mi chiedevano: "Perché?", mi dicevo a mia volta: "E chi lo sa perché?!". Un giorno - era ormai prossima la data decisa per l'ingresso, ma ero tormentata dalla paura di aver sbagliato tutto, di aver capito male... - dissi al Signore nella preghiera: "Quello che sto facendo lo sto facendo unicamente per te, sappilo: dunque, se tu non lo vuoi, fa' che capiti qualcosa che renda impossibile l'ingresso in monastero. Tu lo puoi!".

Sono passati ormai molti anni. E da qui, oggi, con tutta sincerità posso dire che era tutto vero! E' vera la semplicità di una vita povera, che si accontenta del necessario e lascia cadere il superfluo, così da poter penetrare realmente il mistero delle poche cose che servono. Qui si vive di gioia, la gioia dei semplici per cui tutto è stupore e gratitudine, anche la fatica, la sofferenza, il buio, perché tutto è dono, dono di un Dio che si è scoperto essere immensamente buono, che non può mai sbagliare quando interviene nella nostra vita.
Si vive anche di coraggio: ecco la terza parola, che a ben saper leggere tra le righe è stata presente fin dal principio. E' vera anche l'intuizione mia e di coloro che mi volevano bene: la vita delle figlie di S. Chiara è una vita "buttata via", proprio come il nardo prezioso cosparso dalla Maddalena ai piedi di Gesù, prima della Passione. E ci vuole coraggio per accettare di perdersi completamente, giorno dopo giorno.

Eppure il cuore capisce che il segreto della nostra vocazione è solo qui: non è nel lavoro, tante volte anche interessante e gratificante, che il Signore ci chiede; non è nelle parole di incoraggiamento che riusciamo a rivolgere a chi viene a cercare un po' di pace alla nostra grata; sembra assurdo, ma non è neppure nella certezza - comunque viva! - di essere qui a raccogliere nella preghiera il dolore e la gioia di tutta l'umanità... No, il segreto del nostro stare qui è tutto in questo accettare di essere "nulla", per non opporre la minima resistenza all'azione di Dio in noi, per il bene del mondo. E ci vuole coraggio.


Sr. Elena Francesca Beccaria
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