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domenica 1 luglio 2018

Suore di clausura in Friuli Venezia Giulia

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Alle donne che cercano un buon monastero di clausura in Friuli Venezia Giulia o in altre regioni italiane, nel quale poter fare un'esperienza vocazionale per riflettere sullo stato di vita da eleggere, consiglio di scegliere uno tra i migliori, cioè uno nel quale il carisma dell'Ordine religioso preferito viene vissuto con maggiore perfezione e carità. La vita religiosa è meravigliosa, poiché consente di vivere più uniti a Gesù buono e di seguire più facilmente la via della perfezione cristiana.



Bisogna darsi da fare per ubbidire alla divina vocazione. Ecco cosa diceva Sant'Alfonso Maria de Liguori, zelante vescovo e missionario: Ho detto che le religiose che si son date tutte a Dio godono una continua pace; ciò s'intende di quella pace che può godersi in questa terra, che si chiama valle di lacrime. In cielo Dio ci prepara la pace perfetta e piena, esente da ogni travaglio. Questa terra al contrario è luogo per noi di meriti; e perciò è luogo di patimenti, ove col patire si acquistano le gioie del paradiso. 


[…] Vi prego poi, per quando avrete preso il santo abito, a rinnovare ogni giorno la promessa che avete fatta a Gesù Cristo di essere fedele. L'amore e la fedeltà sono i pregi primari di una sposa. A questo fine sappiate che poi vi sarà dato l'anello, in segno della fedeltà che dovete osservare del vostro amore che avete promesso a Gesù Cristo. Ma per esser fedele non vi fidate della vostra promessa; è necessario che sempre preghiate Gesù Cristo e la sua santa Madre che vi ottengano la santa perseveranza; e procurate di avere una gran confidenza nell'intercessione di Maria che si chiama la madre della perseveranza. E se vi sentirete raffreddata nel divino amore e tirata ad amare qualche oggetto che non è Dio, ricordatevi di quest'altro mio avvertimento; allora, affinché non vi abbandoniate alla tiepidezza o all'affetto delle cose terrene, dite così a voi stessa: E perché mai ho lasciato il mondo, la mia casa ed i miei parenti? forse per dannarmi? Questo pensiero rinvigoriva s. Bernardo a riprendere la via della perfezione quando si sentiva intiepidito […]. Ma bisogna che io termini di parlare, mentre me lo comanda il vostro sposo, che ha premura di vedervi presto entrata nella sua casa. Ecco, mirate da qui con quanto giubilo vi aspetta e uditelo con quanto affetto vi chiama, affinché presto entriate in questo suo palazzo regale, quale appunto è questo monastero. Andate dunque ed entrate allegramente, mentre l'accoglienza che stamattina vi sarà fatta dal vostro sposo, nel ricevervi in questa sua casa, vi è come una caparra dell'accoglienza ch'egli vi farà in vostra morte quando vi riceverà nel suo regno del paradiso."


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Dagli scritti di Padre Alfonso Rodriguez, S. J. (1526-1616).

A che cosa e in che modo il religioso sia obbligato dal voto di povertà

   Ci rimane da trattare dell'obbligo che si contrae col voto di povertà, quando si pecca contro di esso e quando si pecca mortalmente, perché è necessario che il religioso sappia a che cosa si è obbligato in questo stato, a motivo dei voti che ha emesso. Altre volte abbiamo trattato della perfezione; tratteremo ora dell'obbligo che deve sempre essere il fondamento su cui si edifica il resto. Raccoglieremo con la brevità possibile tutto quello che dicono i dottori, sia teologi che giuristi, attingendo al Diritto Canonico e ai santi. Per sé, il voto di povertà obbliga il religioso a non aver dominio, né proprietà, né uso alcuno di cosa temporale senza il permesso dei superiori. Questa è comune sentenza dei dottori, esplicitata nei sacri Canoni (Cap. Cum ad Monast. de stat. Monach.).
   Ne segue prima di tutto che il religioso, per il voto di povertà, è obbligato a non avere, né possedere, né dare, né prendere, né ricevere nulla per tenerle o usarle o disporne senza permesso del superiore, perché tali atti sono propri di chi è o può essere proprietario di una cosa; chi agisse così, agirebbe contro il voto di povertà. Ciò affermano tutti i dottori ed è esplicitamente espresso dai sacri Canoni.
   Ne deriva in secondo luogo che agisce contro il voto di povertà chi prende, trattiene, dà o dispone di cosa appartenente alla casa, senza il permesso dei superiori, ma anche chi, sempre senza la debita licenza, riceva qualche cosa da parenti o amici o devoti e la trattiene o ne dispone. Anche questa è sentenza comune dei dottori, esplicitata dal Diritto Canonico come certa.
    Tali sono i princìpi e il fondamento di tutta la materia, e su ciò deve fondarsi tutto quello che verremo dicendo, cercando di trarre dai princìpi le soluzioni dei casi particolari che ci si offriranno.
   Il nostro santo Padre, ci propone e dichiara tutto questo nelle Costituzioni, e lo espresse nelle regole perché lo avessimo sempre sotto gli occhi. Dice la regola ventisei: «Sappiano tutti che non possono l'un l'altro dare né ricevere in prestito, né disporre di cosa alcuna senza che il superiore lo sappia e dia il suo compenso» (P. 3, c. 1, § 8; Reg. 26 Summarii). E perché nessuno pensasse essere contro il voto di povertà soltanto il prendere o disporre senza permesso delle cose di casa, e che il ricevere dal di fuori e disporne senza licenza non è contro il voto di povertà, dichiara anche questo secondo punto in altra regola che dice così: «Nessuno usurpi cosa alcuna di casa o di camera altrui, né la riceva in qualunque modo per sé o per altri da esterni, senza licenza del superiore» (Reg. 9, Comm.). In queste regole egli ricapitola ciò che il voto di povertà esige nel suo rigore.
   È necessario avvertire che nessuno s'inganni col credere che non è peccato, o per lo meno, che non è peccato mortale trasgredire a tali regole, perché le nostre Costituzioni e regole non obbligano sotto peccato. Qualcuno potrebbe dire: Mi accorgevo bene di agire contro la regola, prendendo o dando quel tale oggetto, ma poiché le nostre regole non obbligano sotto pena di peccato, pensavo che fosse soltanto un'infrazione alla regola, non peccato. È vero che regole e Costituzioni non obbligano sotto pena di peccato, come avverte il nostro santo Padre nelle stesse Costituzioni (P. 6, c. 5); ma è evidente che i voti obbligano sotto pena di peccato e di peccato mortale, di per sé. Pertanto il nostro santo Padre dichiarava contemporaneamente che nessuno potrà essere scusato d'ignoranza, né prenderne occasione per errare, essendo la cosa chiarissima. Come il religioso che peccasse contro la castità, peccherebbe contro il voto emesso e commetterebbe un sacrilegio; casi chi lede il voto di povertà pecca mortalmente contro il voto che ha fatto. Non c'è dubbio: era in tuo potere rimanertene nel mondo con tutti i tuoi beni, usare della tua volontà senza entrare in religione e fare il voto di povertà; ma giacché vi sei entrato ed hai emesso i voti, non è più in tuo potere ricevere neppure un reale, né puoi tener nulla senza permesso, perché ti ci sei obbligato col tuo voto.
   È proprio quello che disse S. Pietro negli Atti degli Apostoli ad Anania e Saffira, i quali dopo aver fatto voto di povertà, come notano i santi, vendettero una loro proprietà e ne portarono il prezzo ai piedi degli apostoli, come facevano tutti; però si riservarono per sé una parte del ricavato, dicendo di non averla venduta per più di quanto offrivano. Ma S. Pietro apostrofò casi Anania: «Anania, come mai ti sei lasciato ingannare il cuore da Satana fino al punto da mentire allo Spirito Santo e farti ritenere parte del prezzo del podere? Se non fosse stato venduto, non rimaneva forse a te? E dopo averlo venduto, il prezzo non era a tua disposizione? Come mai tu hai potuto concepire una cosa simile? Tu non hai mentito agli uomini, ma allo Spirito Santo» (Act 5, 3-4). Seguì subito il castigo, perché cadde morto all'improvviso; e lo stesso accadde alla moglie che aveva partecipato al delitto. Il testo conchiude: «Gran timore ne nacque in tutta la Chiesa, e in tutti coloro che udirono tali cose». Lo stesso timore di peccare contro il voto di povertà, incorrendo in un castigo così rigoroso, deve pervadere anche noi.
   Tornando all'obiezione, dico che se su questo punto non ci fosse altro che la disposizione della regola, trasgredirla non sarebbe peccato; ma quando le Costituzioni o le regole contengono o dichiarano la materia dei voti, obbligano sotto pena di peccato; non per la loro forza di obbligazione, ma per l'obbligo che si contrae col voto; come quando legiferano in materia di castità o legge naturale, non obbligano per virtù propria, ma in forza dell'obbligo che la castità o la legge naturale portano con sé. Ora, poiché le regole che abbiamo citate illustrano l'essenza del voto di povertà e a che cosa il voto obbliga di per sé, chi trasgredisce tali regole, pecca non perché trasgredisce quelle regole, ma perché trasgredisce il voto di povertà che da quelle regole è illustrato. Di modo che le teniamo sotto lo sguardo non soltanto per considerare quello che dicono in quanto regole, ma per convincerci che in esse è compendiata la sostanza del voto di povertà cui esse obbligano con tutto il rigore, sostanza che è ricavata dal Diritto Canonico e dalla dottrina dei Padri, come abbiamo detto. Pertanto S. Agostino, trattando dei religiosi che vivono in comunità, dice: È cosa certa che il religioso non può tenere, né possedere, né dare, né ricevere cosa alcuna senza licenza del superiore (De communi vita Clericorum; et habetur cap. Non dicatis, 12, q. 1; PL 32, 1449), come dice letteralmente anche la nostra regola. Questo significa esser povero; poter di propria volontà e senza licenza di un altro prendere, dare, tenere o disporre di alcun che di temporale, significa esser proprietario e, conseguentemente, agire contro il voto di povertà.
   Perché tutto ciò, che deve essere considerato come primo principio in questa materia, sia bene inteso, bisogna notare che la differenza fatta da dottori, teologi e giuristi tra l'uso e il dominio, tra l'essere padrone di una cosa e l'averla soltanto in uso, è questa: il padrone può farne ciò che vuole, prestarla, venderla, sciuparla o disporne comunque voglia; ma chi non è padrone in senso assoluto, ma l'ha soltanto in uso, non può disporne come vuole, perché non può darla ad un altro, né venderla, né alienarla, ma può soltanto usarla allo scopo per cui gli fu concessa. E lo spiegano con un esempio. Come chi invita un altro a pranzo gli dà facoltà di mangiare di tutto quello che gli mette dinanzi, ma non lo fa padrone, perché non potrebbe portarselo a casa sua, né mandarlo ad un amico, né venderlo, né farne un qualsiasi altro uso di suo gusto, ma ha solo la possibilità di mangiarne quanto gli pare; così è di chi ha l'uso in paragone di chi ha il dominio, anche nelle cose che si consumano con l'uso. Ora dicono i dottori che cosi avviene per i religiosi ai quali, anche per le cose che tengono con licenza dei superiori, è concesso solo l'uso, onde possano servirsene e giovarsene. È evidente che non puoi dare ad un altro l'abito che ti fu dato perché te ne vestissi, senza licenza del superiore, perché non è tuo; se tu lo facessi, peccheresti contro il voto di povertà, perché agiresti da padrone assoluto, facendone quel che ti pare. Quello che dico dell'abito va inteso di tutte le altre cose che usiamo: non puoi dare né il breviario, né la cartella, né il cappello, senza licenza del superiore, perché nulla è tuo, ma tutto ti è stato concesso in uso, per te, come all'invitato a pranzo (BONAVENT., Spec. discip., part. 1, c. 1). Ricordiamoci sempre di quest'esempio che calza molto a proposito ed esprime bene il pensiero.
   Se delle cose che il religioso, col debito permesso, ha per suo uso diciamo che non può farne ciò che vuole, né darle ad altri, è chiaro che tanto meno può dare, prendere o disporre degli oggetti di casa, senza permesso del superiore, togliendole, per esempio, dal guardaroba, dal refettorio, dalla dispensa o da qualsiasi altro luogo, né per darle agli altri, né per usarne per sé: ciò sarebbe più chiaramente contrario al voto di povertà.

[Brano tratto da "Esercizio di perfezione e di cristiane virtù" di Padre Alfonso Rodriguez].