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venerdì 26 ottobre 2018

Suore di Clausura in Veneto

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Le donne che sentono nel proprio cuore di avere la vocazione alla vita matrimoniale, ma non riescono a trovare un fidanzato cristiano, possono leggere il seguente annuncio di un ragazzo che sta cercando una donna che sia fedele agli insegnamenti della Chiesa Cattolica. Cliccare qui per leggere l'annuncio.


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In passato il Veneto era una regione povera economicamente, ma ricca spiritualmente. Era una sorta di roccaforte cattolica rispetto ad altre regioni italiane, e le vocazioni rifiorivano rigogliose. Poi è arrivato il benessere economico, molti hanno aperto un'impresa, la disoccupazione è crollata ai minimi, ecc. Purtroppo, però, molta gente si è allontanata da Dio. Dice infatti il Salmista, “nella prosperità l'uomo non comprende, è simile alle bestie che muoiono”. Vista la secolarizzazione dell'Occidente cristiano, era logico aspettarsi un crollo delle vocazioni anche nel Veneto, e così è stato. Nonostante la desertificazione spirituale, la Madonna, che è Mediatrice di tutte le grazie, riesce a far sbocciare dei roseti che profumano di virtù cristiane. Grazie a Dio ci sono ancora alcuni buoni monasteri che hanno tante vocazioni. E' davvero sorprendente constatare le numerose vocazioni di ragazze venete che questo monastero riesce ad attrarre, nonostante le clarisse vivano nella clausura e non possono uscire a far propaganda vocazionale. La preghiera è veramente una potentissima arma spirituale!

Chissà, forse ci sono delle ragazze che leggono questo blog dal Veneto, che sperano di entrare un giorno in qualche ottimo ordine religioso, ma hanno timore di fare il “grande passo”. Non scoraggiatevi! Vi consiglio di cuore di mettervi nelle mani materne della Beata Vergine Maria Addolorata, recitandole una novena in onore dei dolori che patì nel vedere suo Figlio inchiodato alla Croce del Golgota. Non si è mai sentito dire da nessuno al mondo che qualcuno, dopo essersi affidato con fiducia a Maria, sia stato da ella abbandonato.


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Dagli scritti di Padre Alfonso Rodriguez, S. J. (1526-1616).


L'obbedienza non esclude il far presente le difficoltà; in che modo ciò deve essere fatto

   Non solo non è mancare alla perfezione far presente al superiore le proprie difficoltà, ma sarebbe mancanza non presentarle a suo tempo. Noi abbiamo su questo una regola che ce lo comanda espressamente: «Come la troppa sollecitudine delle cose che spettano al corpo, è biasimevole; così la cura moderata di conservare la santità e le forze del corpo per servizio divino, è lodevole e tutti la devono avere; e perciò quando conoscessero alcuna cosa essere loro nociva o altra necessaria circa il vitto, il vestito, l'abitazione, l'ufficio, l'esercizio, e cose simili, tutti ne avvisino il superiore o altri che sarà da lui deputato» (Const., p. 3, c. 3 e 1; Reg. 46 Summarii). Con molta ragione il nostro santo Padre ci ha proposto questa regola, perché se è vero che la principale cura delle cose necessarie alla salute spetta, nel suo complesso, ai superiori, alla fine essi sono uomini e non angeli e come tali non possono sapere se avete necessità di qualcosa fuori del comune, né ricordarsi di tutti i particolari; pertanto è necessario che voi li aiutate in ciò in modo che essi possano provvedere. Il punto delicato sta nel modo di far presente queste cose, perché c'è gran pericolo che vi si mescolino l'amor proprio e il giudizio personale; perché si possa farlo con tranquillità, il nostro santo Padre dice che bisogna osservare due cose. La prima: raccogliersi in preghiera prima di parlare e parlare solo se si sente di doverlo fare con chi di dovere. Con questo non vogliamo dire che devi recitare delle Ave Marie e poi correre a manifestare un tuo capriccio, ma che la preghiera da fare prima di proporre la tua necessità è di esaminare nel raccoglimento se è per la maggior gloria di Dio il proporre ciò, o se cerchi invece te stesso; perché se fosse cos1 non dovresti dir niente; solo se ti sembrasse conveniente per la maggior gloria di Nostro Signore devi parlare.
   La seconda cosa da osservare è che «avendo proposto la cosa al superiore o brevemente in iscritto perché non se ne dimentichi, ne lascino a lui tutta la cura ed abbiano per bene quanto egli determinerà, non replicando o facendo istanza né per sé, né per altri, o si conceda quel che si domanda o no; poiché devono persuadersi che quanto egli, essendone informato, in Domino giudicherà, più ancora convenga al servizio di Dio e sia loro maggior bene». Di modo che sia prima che dopo aver parlato, dovete stare in una grande indifferenza non solamente quanto al prendere o lasciare la cosa di cui si tratta, ma anche quanto alla vostra soddisfazione circa l'ordine del superiore.
   L'aspetto principale di questa possibilità di far presente una qualche necessità sta nello stato d'animo di indifferenza di colui che chiede, in modo che sia sempre contento in ogni caso. In questo si vedrà se cercava la gloria di Dio o se stesso. Perché se cercava puramente la volontà e la gloria di Dio, qualunque cosa abbia deciso il superiore, se ne rallegrerà, sicuro che quella è la volontà di Dio significata dal superiore. Ma se si lamenta, mormora o rimane interiormente inasprito dinanzi al rifiuto, questo è segno che non era indifferente, né cercava puramente Dio, ma se stesso e le sue comodità: rimane sconsolato e tentato, perché non ha ottenuto quello che cercava. Così una delle cose che bisogna cercare di ricavare dall'orazione che si fa precedere all'atto del chiedere, è di porsi in uno stato di grande indifferenza qualunque sia la risposta, in modo da non perdere la pace sia che abbia un sì o che abbia un no. Questa è la migliore disposizione che si possa avere nel proporre, perché in tal modo si rimane sempre contenti con il sì come con il no. Sarebbe anche saggio riflettere, quando si è ottenuto quel che si chiedeva, se si sarebbe ugualmente contenti non avendolo ottenuto; perché questo sarebbe un buon segno e solo allora si potrebbe essere tranquilli, perché non si fa la propria volontà, ma quella di Dio, nonostante il sì.
   Adunque, dico, il proporre in tal modo le proprie necessità, non solo non è contro la perfezione dell'obbedienza, poiché non toglie nulla all'indifferenza e alla docilità, ma è anzi perfezione e mortificazione maggiore; il non proporre, oltre ad essere un'espressa disobbedienza alla regola citata, è imperfezione e immortificazione manifesta: qualcuno avverte che c'è qualcosa che gli fa male, o che ha bisogno di un'altra cosa e non dice nulla: se me lo danno, bene, altrimenti pace! Forse questo gli sembra mortificazione e desiderio di soffrire; ma non è altro che immortificazione e desiderio di non soffrire, perché è segno che prova maggiore difficoltà e ripugnanza ad esporre la sua necessità al superiore che non a sopportare quello che sopporta; gli pare che il superiore lo stimi un uomo che pensa a se stesso e cerca le sue comodità. Altre volte l'immortificazione sta nella poca indifferenza: giorni fa ho chiesto qualche cosa, ma il su­periore mi ha risposto in modo che sono uscito dalla sua stanza con la decisione di non chiedere più nulla, se non quando proprio non ne potrò più. Tutto ciò avviene perché non hai chiesto con indifferenza, né eri sufficientemente virtuoso per ricevere un no. Per questo preferisci sopportare anziché chiedere.
   Si deve in ciò osservare l'inganno del demonio e la forza della nostra volontà propria, che ci fa preferire di soffrire la necessità in cui siamo per nostra volontà per timore che ci sia negato ciò che chiediamo. Tutto ciò anche dal punto di vista dell'amor proprio e del nostro interesse è errore e cecità. Facciamo conto che il superiore debba dirci di no: non sarebbe meglio soffrire per obbedienza e per volontà di Dio, anziché per volontà propria, come facciamo ora? È evidente. Inoltre si guadagnerebbe il merito di aver chiesto e di aver osservata la regola e non è piccolo merito, e non ci sarebbero da temere gli inconvenienti che ne possono seguire, perché quegli inconvenienti che tacendo rimangono a carico nostro, parlando sono a carico del superiore e di Dio, che ci dirige per suo mezzo. Ora il santo Padre ci ha data quella regola che abbiamo citata proprio per prevenire tutti questi inconvenienti, per eliminare tutte le difficoltà e la vergogna che potremmo provare nell'andare a chiedere; chi osserva la regola, che cosa dovrebbe temere e di che cosa dovrebbe vergognarsi? Non può fare cattiva impressione, perché osserva la regola. La consuetudine che in questo campo c'è nella Compagnia di ricorrere al superiore nelle cose più piccole, rende questo punto anche più facile; non è che la nostra immortificazione a farlo difficile.
   Il punto nevralgico di questa osservanza sta nel proporre le cose con indifferenza e rassegnazione: pertanto è necessario spiegare un po' meglio. Non bisogna andare a chiedere con la convinzione che la richiesta è quanto di più conveniente, perché questo farebbe rimanere inquieti e tentati se la cosa non avesse l'esito desiderato. Bisogna presentarsi al superiore sempre con uno stato d'animo sospeso, aspettando con indifferenza la sua decisione; così si rimane in pace qualunque sia la risposta. Come quando si va da un maestro ad esporre un dubbio speculativo, si rimane sempre contenti della risposta, perché si va a lui con animo di discepolo e si ritiene come vera la sua soluzione; allo stesso modo il vero obbediente deve proporre al superiore i suoi dubbi pratici, intorno a ciò che conviene e senza propensione né in un senso, né in un altro, finché il superiore non abbia dichiarato quello che si deve fare. Solo allora il giudizio del superiore è da ritenersi come il migliore, tale da essere seguito con la massima soddisfazione. Così nella preghiera che si premette non bisogna determinare quello che è più conveniente per la gloria di Dio, ma soltanto se è conveniente proporlo al superiore, cioè se proponendolo si cerca Dio o se stessi. Ma sempre si deve rimanere in dubbio se in verità convenga o no, finché il superiore non abbia deciso.
   Questo è un punto importantissimo e degno di essere messo in rilievo, perché da esso dipende il retto modo di esporre la propria richiesta e la successiva tranquillità d'animo, qualunque sia la risposta del superiore. Poiché questo è un uso molto frequente nella nostra famiglia religiosa, è molto importante che lo facciamo come si conviene; sarebbe un gran danno per la religione e cosa molto penosa se su questo punto vi fosse del rilassamento, in modo che con difficoltà i superiori potessero negare qualcosa ai sudditi, senza provocare amarezza, scontenti e lamenti, perché si sentono poco amati ed hanno la persuasione e forse lo vanno anche mormorando, che il superiore è troppo duro e non si lascia piegare. Dovremmo considerare che quando sopportiamo che i nostri genitori ci negassero qualcuna delle cose che chiediamo, non li giudichiamo per questo troppo severi, né li priviamo dell'amore che loro era dovuto; e ciò quando non avevamo fatta professione di rinnegamento della nostra volontà e di guerra a noi stessi; ora che abbiamo professato tutto ciò, è molto più logico che facciamo altrettanto verso coloro che sono i nostri padri spirituali.
   Anticamente si usava che i superiori di proposito negassero ai loro sudditi ciò che chiedevano, anche se potevano concederlo senza inconvenienti, unicamente per esercitarli nella mortificazione e per metterli in condizione di sopportare bene un rifiuto. E i sudditi accettavano con gioia quell'occasione che loro si offriva per spezzare la volontà propria nel gran desiderio della loro perfezione. Come giudicare il fatto che ora non solo non si possa far ciò, ma non si possa neppure negare ciò che non conviene, senza che segua una infinita serie di lamenti? A che punto si arriverebbe se i superiori dovessero accondiscendere ai desideri dei sudditi, concedendo quello che non potrebbero per evitare un male maggiore? Il che, come abbiamo detto più sopra (Capo IV), deve essere grandemente temuto dal religioso.
   Perché l'esporre le proprie necessità sia fatto con la massima perfezione, non solo bisogna rimanere nello stato di indifferenza interiore di cui abbiamo parlato, ma bisogna mostrarlo anche esteriormente scegliendo le parole adatte, perché esse concordino col desiderio e l'esterno corrisponda all'interno. È un bel modo di chiedere quello che manifesta l'abbandono interiore e quanto più lo manifesta, tanto più è buono. Se riuscissimo a proporre le cose in tal modo che il superiore non possa comprendere in quale direzione vada la nostra preferenza, ma veda soltanto una richiesta fatta secondo ragione, in modo che sia egli a decidere ciò che conviene, questo sarebbe veramente un bel modo di chiedere. Lo comprenderemo meglio da quanto stiamo per dire. Una regola per il Provinciale dice che nelle consulte, quando propone qualche cosa ai consultori perché diano il loro parere, la proponga senza mostrare la sua preferenza, in modo che essi possano esprimere più liberamente il loro parere e non siano indotti a propendere per il suo modo di pensare nel caso che egli lo abbia fatto capire (Reg. 15, Prov.). Questo è un buon modo di proporre una cosa al superiore, usare parole così semplici e piane, che esso comprenda appena verso quale soluzione voi inclinate, in modo che non sia indotto ad accondiscendere, vedendo la vostra fragilità, ma possa vedere da sé quello che è meglio senza rispetto al desiderio o tendenza alcuna.
   Il santo Vangelo ci offre a questo proposito due mirabili esempi. Il primo è il modo con cui la santa Vergine presentò al Figlio la deficienza di vino nelle nozze a cui erano stati invitati: «Non hanno vino» (Io. 2, 3). Non dice: Signore, te ne supplico, giacché puoi, supplisci a questa mancanza, perché non ne rimangano umiliati; ma fa semplicemente presente la necessità. Il secondo esempio è il modo con cui Marta e Maria fecero conoscere a Cristo, nostro Redentore, la malattia di Lazzaro. Il santo Vangelo dice che gli mandarono un'ambasciata così concepita: «Signore, colui che ami, è ammalato» (Io. 11, 3). S. Agostino osserva che non dissero: Signore, vieni; e neppure osarono dire come il Centurione: «Comanda e avverrà»; ma soltanto: «Signore, colui che ami, è ammalato!» A chi ama, non è necessario spiegar meglio la cosa (Hom. 1 sup. hoc Evang.). Ora, a questo modo dobbiamo presentare le nostre necessità al superiore, con le semplici parole che significano la necessità, senza far comprendere che cosa desidero o a che cosa propendo; potremo così esser sicuri che egli non accondiscende ai nostri desideri e noi non cerchiamo noi stessi.
   Questo modo è quello presentato espressamente dal nostro santo Padre nelle Costituzioni, a proposito degli infermi che sentono i danni del clima di qualche regione. Dice che l'infermo non deve proporre cambiamento né desiderio di esso, ma soltanto far conoscere al superiore la sua infermità o indisposizione e l'inabilità in cui si trova di compiere il suo ministero; tutto il resto deve lasciarlo al superiore. Sarà lui a decidere se deve mandarlo altrove perché, stando meglio, possa far di più, o se è per la maggior gloria di Dio che stia lì, pur facendo meno, o nulla addirittura; ciò che forse è più utile per lui (P. 3, c. 2, lit. G). Ora, se in una cosa, che a noi sembrerebbe di tanta importanza, il nostro Padre chiede tanta indifferenza, che non solo non vuole che chiediamo un cambiamento, ma non vuole neppure che accenniamo al desiderio, che sarà delle cose meno importanti? E poiché molte volte non sappiamo presentare le cose senza che il superiore comprenda ciò che desideriamo, è degno di molta lode il modo di fare di alcuni i quali, dopo aver presentato la cosa con chiarezza e semplicità, chiedono al superiore con sincerità di non preoccuparsi di farli contenti, ma di guardare solo al maggior servizio di Dio, affermando che ciò sarà per loro gran carità e conforto, perché comprendono che in esso è la volontà di Dio; e affermano che se dovessero comprendere ch'egli cerca di accontentarli, ciò sarebbe loro motivo di afflizione, sembrando loro di fare la propria volontà e non quella di Dio e dell'obbedienza.


[Brano tratto da "Esercizio di perfezione e di cristiane virtù" di Padre Alfonso Rodriguez].